L’Università di Udine è capofila di un progetto di ricerca PRIN (Progetti di Rilevante Interesse Nazionale) finanziato dal Ministero dell’Istruzione chiamato “Modi – Memorie e Culture della Produzione Cinematografica Italiana”, con il fine di approfondire la storia dell’industria cinematografica nel nostro Paese durante la sua stagione più florida, dal 1949 al 1976. La responsabile scientifica è la professoressa Mariapia Comand, docente di Caratteri del Cinema Italiano e Storia del Cinema presso l’Università degli studi di Udine. Ne parliamo con Simone Dotto, ricercatore associato al progetto e docente presso lo stesso ateneo.
Simone, avete svolto questo progetto in autonomia?
No, il PRIN è un progetto collettivo che, nel nostro caso, vede la collaborazione con altri tre atenei italiani: lo IULM di Milano, l’Università di Parma e quella di Roma Tre. Partecipano poi ricercatori delle università di Cagliari e E-Campus. Un progetto partito dal reperimento di una grande quantità di fonti archivistiche e pubblicistiche. Rispetto a queste ultime, ci siamo concentrati sulle riviste tecnico-industriali, la cosiddetta trade press, quelle pubblicazioni che si rivolgevano agli addetti ai lavori o pubblicate da una certa categoria di lavoratori della filiera industriali per dialogare con le altre professioni.
L’arco cronologico preso in considerazione per la ricerca è consistente…
Sì, sono 25 anni di storia del cinema articolati in tre lustri particolarmente importanti, che vedono il cinema affrontare il riavvio post-bellico, internazionalizzarsi e raggiungere il suo apice produttivo per poi progressivamente cambiare e “frantumarsi”, fino all’arrivo della televisione commerciale e delle emittenti private.
In che cosa è consistito il lavoro?
Per la parte che riguarda le riviste si è trattato di individuare, fra le varie biblioteche d’Italia, quale avesse le collezioni il più possibile complete di tutti i numeri e di ricomporre le annate di nostro interesse. Una volta capito quali testate ci interessava acquisire. abbiamo elaborato un programma e un protocollo per la loro digitalizzazione.
È qui che entra in gioco PageNet?
Diciamo di sì. Approfittando di un momento di stallo del progetto, a causa del Covid, ci siamo messi in contatto con biblioteche e archivi. Avevamo già uno scanner planetario progettato da PageNet, che avevamo utilizzato per una serie di pubblicazioni. Ma, a conti fatti, la quantità di materiale diventava troppo ingente e di formati troppo diversi e irregolari per poter essere digitalizzato dai soli ricercatori con mezzi propri. Ci siamo quindi rivolti a PageNet, che ci ha aiutato a stabilire una modalità di intervento.
Cioè?
Il modo in cui era possibile trasferire le riviste in formato digitale per preservarle sulla lunga durata ma anche di renderle accessibili alla consultazione.
Che tipo di supporto vi ha fornito PageNet?
Non solo tecnico e professionale, ma anche organizzativo e gestionale. Abbiamo approfittato della grande “expertise” di PageNet nel gestire i rapporti con le istituzioni per spostamenti dei materiali delicati. Con loro abbiamo potuto consolidare un protocollo di digitalizzazione che abbiamo portato avanti in autonomia nelle sedi universitarie ma avvalendoci anche dei loro laboratori di Milano.
Un lavoro di digitalizzazione massiva, che ha richiesto tempo e precisione per intervenire sui materiali che avete fornito… Sì, la consulenza di PageNet è stata fondamentale anche per realizzare la possibilità di rendere questi materiali leggibili con un testo attivo e non solo come un’immagine statica. Abbiamo poi concordato come produrre copie nei formati più adatti: leggeri per una consultazione online, ad alta definizione per una ricerca più approfondita. In questo modo sarà più facile per la comunità scientifica e professionale e per le istituzioni titolari del patrimonio utilizzarli e consultarli. A questo scopo il progetto ha messo insieme un vero e proprio catalogo delle riviste, al momento accessibile su credenziale ai componenti del progetto.
Quanto materiale è stato digitalizzato da PageNet per voi?
Abbiamo lavorato su dieci testate di diverse riviste, con periodicità variabili, a seconda della rivista stessa e della storia di ciascun editore e realtà professionale. In ogni caso siamo attorno alle 32.700 pagine scannerizzate.
Con quante istituzioni vi siete interfacciati?
Solo sul versante delle riviste le biblioteche con cui abbiamo collaborato sono la “Luigi Chiarini” di Roma e la “Renzo Renzi” della Cineteca di Bologna, la Biblioteca “Sormani” di Milano e quella dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Altre riviste sono arrivate da bacini privati, associazioni professionali e storiche come la sede dell’AGIS Triveneto (Associazione Generale Italiana dello Spettacolo) a Padova e dell’ANICA (Associazione Nazionale Industrie Cinematografiche Audiovisive Digitali) di Roma. Si tratta delle due realtà storiche che più hanno segnato la storia industriale e professionale del cinema dal secondo dopoguerra a oggi, titolari di patrimoni inestimabili, anch’esse coinvolte nel progetto.
A che punto è il progetto?
Il catalogo è già pronto e in parte accessibile a chi sta studiando, facendo ricerca all’interno del nostro gruppo. Il progetto finirà ufficialmente nel 2024. Ma intravediamo all’orizzonte già ulteriori sviluppi di ricerca.
Quali?
La nostra rimane una ricerca a sfondo storico-culturale, una ricerca umanistica, che apre ad altri tipi di competenza. Vogliamo anzitutto aiutare a conservare e rendere fruibili tutti i materiali cartacei che abbiamo reperito ma anche facilitare la ricerca e moltiplicarne le strade possibili: avvalendoci di informatici esperti nell’elaborazione e nell’analisi dei dati miriamo a rendere questi materiali consultabili diversamente, non solo con il tradizionale spoglio dei volumi.
L’obiettivo del progetto è quello di offrire analisi di dati?
C’è anche questo e farà parte di un altro portale della ricerca che abbiamo chiamato Atlante della produzione cinematografica. Vorremmo proseguire usando le stesse informazioni delle riviste per individuare sigle, nomi e realtà professionali che troppo spesso rimangono ai margini della storiografia maggiore proprio perché troppo “addentro” ai margini dell’industria. È uno degli obiettivi originali del progetto, quello di dare risalto ai soggetti meno visibili, e una delle metodologie possibili, quella di lavorare per la visualizzazione.
Quanto è stata importante la digitalizzazione in questo progetto?
Ci sono molti modi per fare ricerca, che non prevedono la digitalizzazione, ma effettivamente quest’ultima in questo momento è necessaria all’accessibilità e non esiste un’alternativa a questo tipo di strumento. Anche se occorre sempre tener presente che non stiamo trasferendo i materiali in un “iperuranio”, dove rimarranno per sempre. Chi si occupa degli aspetti più tecnici relativi alla digitalizzazione con lo sa bene. La memoria informatica non salva né sostituisce il materiale cartaceo. Diventa solo un’altra memoria da conservare in vista di cambiamenti ed evoluzioni future. E questo approccio lo abbiamo condiviso con PageNet, con cui c’è stata piena sintonia.